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Venezia
05.02.2022 - 10:56
VENEZIA - Sono agricoltori, artigiani, esercenti, piccoli commercianti e liberi professionisti non iscritti alle casse. Costituiscono la gran parte del mondo del lavoro autonomo, la categoria professionale che è stata la più colpita dal Covid. Nel quinquennio esaminato in questa analisi, questo popolo di microimprenditori si è decisamente assottigliato: all’appello, in Veneto, ne mancano 31.798. Se a febbraio 2015 lo stock complessivo ammontava a 414.034, a dicembre 2020 (ultimo dato disponibile) è sceso a 382.236 unità (-7,7 per cento). A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia che ha elaborato i dati occupazionali presentati nei giorni scorsi dall’Istat.
Sempre in questo arco temporale, a livello provinciale la situazione più critica si è registrata a Rovigo, con una contrazione percentuale del numero degli autonomi di 11 punti. Seguono Vicenza (-9,5 per cento), Belluno e Verona (- 9,1 per cento), Padova (-6,8 per cento), Venezia (-5,9 per cento) e Treviso (-5,6 per cento). In tutte le province è stato molto deciso il ridimensionamento del numero degli artigiani e commercianti, mentre in tutte le 7 realtà provinciali il numero del professionisti con gestione separata Inps (ovvero senza cassa) sono in aumento.
Nello specifico in provincia di Venezia gli artigiani sono passati dai 25.225 del 2015 ai 23.134 del 2020, 2.091 in meno con una variazione del -8,3%; gli autonomi agricoli erano 4.306 nel 2015, 3.954 nel 2020 con un calo di 352 unità, -8,2%; i commercianti sono passati da 33.218 nel 2015 ai 30.949 del 2020, 2.269 in meno, -6,8%; salgono vertiginosamente, invece, i professionisti della gestione separata (traduttori, consulenti, guide turistiche, amministratori di condominio, logopedisti, igienisti dentali, webmaster e simili) passati da 3.812 a 4.578, 766 in più con una crescita del 20,1%. In totale nella provincia di Venezia si è passati quindi da 66.561 partite Iva del 2015 alle 62.615 del 2020, 3.936 in meno per la differenza di -5,9%.
Nonostante non vi siano ancora i dati di dettaglio, la crisi pandemica e le conseguenti limitazioni alla mobilità, il calo dei consumi, le tasse e l’impennata del costo degli affitti hanno peggiorato una situazione di per sé molto deteriorata. Negli ultimi mesi, inoltre, si è fatto sentire anche il caro energia. Le bollette di luce e gas, infatti, hanno subito dei rincari spaventosi. Se, inoltre, teniamo conto che negli ultimi 10 anni le politiche commerciali della grande distribuzione organizzata e il boom delle vendite on line sono diventate sempre più mirate ed aggressive, per molti artigiani e altrettanti piccoli commercianti non c’è stata via di scampo. L’unica soluzione è stata quella di gettare definitivamente la spugna. Anche in Veneto.
Per tentare una inversione di tendenza, oltre ad abbassare le tasse, rilanciare i consumi e ad alleggerire il peso della burocrazia è necessario, in particolar modo nell’artigianato, rivalutare il lavoro manuale. Negli ultimi 40 anni c’è stata una svalutazione culturale spaventosa. Attraverso le riforme della scuola avvenute in questi ultimi anni, sono stati fatti alcuni passi importanti, ma non basta. Bisogna fare una vera e propria rivoluzione per ridare dignità, valore sociale e un giusto riconoscimento economico a tutte quelle professioni dove il saper fare con le proprie mani costituisce una virtù aggiuntiva che rischiamo colpevolmente di perdere. Come dicevamo, la crisi c’è, morde e fa paura, ma, nonostante ciò, c’è anche il rovescio della medaglia. Non sono pochi, infatti, i settori dove i posti di lavoro rimangono scoperti perché i giovani non sono disponibili a impegnarsi professionalmente. Gli autisti di mezzi pesanti, addetti alle macchine a controllo numerico, i tornitori, i fresatori, i verniciatori e i battilamiera sono pressocché introvabili. Senza contare che, al netto dei lavoratori stranieri, nel settore delle costruzioni è sempre più difficile reperire conduttori di macchine per il movimento terra, carpentieri, cappottisti, posatori e lattonieri.
Da quasi un anno Cgia chiede sia al premier Draghi che ai governatori di aprire un tavolo di crisi permanente a livello nazionale e locale. Mai come in questo momento, infatti, è necessario dare una risposta ad un mondo, quello autonomo, che sta vivendo una situazione particolarmente delicata. Intendiamoci, misure miracolistiche non ce ne sono. E non dobbiamo nemmeno dimenticare che in questi ultimi due anni oltre ai ristori (ancorché del tutto insufficienti), gli esecutivi che si sono succeduti hanno, tra le altre cose, istituito l’Iscro, l’assegno universale per i figli a carico ed il reddito di emergenza per chi è ancora in attività. Tutte misure importanti, ma non sufficienti per fronteggiare le difficoltà provocate da questa crisi pandemica.
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