Vedi tutte
IL RICORDO
24.04.2024 - 11:02
CAVARZERE - La Resistenza, nata all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre del ’43, è stata studiata e analizzata da molti storici, in modi diversi, sia negli aspetti generali della lotta al nazifascismo, sia soffermandosi su episodi tragici che ne hanno scandito lo svolgimento. Abbiamo quindi avuto la possibilità di conoscere molte storie e personaggi. Dalla lettura dei fatti appare, senza voler togliere niente al merito dei protagonisti, che la Resistenza sia stata un’impresa e un impegno solo degli uomini, mentre le donne, che pure hanno avuto ruoli importanti e fondamentali, sono rappresentate in maniera marginale. Invece, dopo l’8 settembre, le donne hanno scelto di stare dalla parte giusta, di non voltarsi dall’altra parte mentre i soldati italiani erano ricercati e dovevano nascondersi. E nel momento in cui padri, fratelli e compagni hanno cominciato ad armarsi per resistere alla violenza nazifascista sono scese in campo anche loro. Indispensabili in molteplici ruoli: vivandiere, infermiere, staffette. Non possono essere indifferenti davanti ai rastrellamenti, ai partigiani fucilati, ai corpi appesi agli alberi . Tina Anselmi, staffetta partigiana col nome di “Gabriella”, ha detto: “Non è giusto ubbidire ad una legge ingiusta, bisogna opporsi al senso di fatalità e di passività”. (Voci di partigiane venete - Cierre ed.).
Per le ragazze, le donne più adulte, disobbedire significa indossare i pantaloni, andare da un paese all’altro in bicicletta, macinando chilometri, per portare stampa clandestina, tenere i contatti fra chi doveva restare nascosto e il mondo esterno. Forme di disobbedienza spesso pagate a caro prezzo. Fondamentale diventa il ruolo di staffetta ricoperto dalle donne, anche se questo termine lascia intendere che il contributo dato è stato sì importante e prezioso, ma di qualità inferiore rispetto a quello maschile. La resistenza delle donne diventa anche resistenza civile: quando si rende necessario organizzare una manifestazione o una protesta per il pane, portare fiori sulle tombe dei partigiani assassinati, opporsi all’arresto dei figli o dei mariti.
Emblematico il fatto avvenuto a Cavarzere nell’autunno del ’43 quando circa 200 ragazzi dai 18 ai 20 anni sono stati invitati a presentarsi ad una riunione nel teatro comunale per essere arruolati dalle autorità fasciste. Poiché nessuno di loro si offriva volontario, vennero chiuse tutte le uscite del locale imprigionando, praticamente, i giovani. Verso sera, una gran folla, in maggioranza donne, armate di bastoni e spranghe tentavano di abbattere le porte per liberare i giovani. A capo c’era Olga Guarnieri “Olga Tantana” che coraggiosamente andò a parlamentare con i soldati e finalmente ottenne la libertà dei ragazzi. Il vicino Polesine è stato protagonista di tantissimi episodi, riportati nelle cronache del tempo e soprattutto in successivi testi storici: in particolare gli eccidi di Villamarzana e Villadose, la morte di Espero ed Eolo Boccato, il rastrellamento di Stienta.
Anche in queste occasioni è stata trascurata la descrizione ed il racconto dell’attività volontaria prestata dalle figure femminili, non è stata collocata nella giusta dimensione e non le sono stati assegnati giusto riconoscimento e dignità. Ne è un esempio la copertina del periodico “Studi polesani – 21/23 – Polesine e Resistenza – Minelliana ed.” che riporta la foto di un giovane, forte, audace, armato di mitra e, all’interno, solo poche pagine sono dedicate all’impegno femminile. La comparsa di donne in grado di maneggiare armi è un’idea lontana dall’immaginario collettivo. Maneggiare armi era pratica descrivibile solo con parole e aggettivi che si rifanno al genere maschile. La donna che sparava, entrando nella sfera maschile le cui caratteristiche erano simboleggiate da coraggio leonino, arditezza, disciplina, lo faceva virilmente, come recita la motivazione per la medaglia d’oro conferita a Livia Bianchi, di Melara, che, catturata durante un’azione in montagna con i compagni, rifiutò la grazia concessa perché donna, e fu fucilata insieme a loro.
In alcuni articoli del Gazzettino (24 dic. 1943) si leggeva, nel resoconto della prima assemblea del Fascio femminile di Rovigo, “… queste donne, autentiche fiaccole di italianità, madri,spose…” e ancora “…in una cornice di dolce intimità si è svolta nella Casa della Madre e del Bambino, l’undicesima giornata del Fanciullo, attraverso la quale viene esaltata l’importanza che il fattore demografico ha nella vita della Nazione…”.
La donna dunque, madre o moglie, figure positive, non aveva visibilità pubblica. Il suo spazio era la casa, di cui era la regina. Le testimonianze di Magda Tralli, Rosa Giribuola, Amalia Moncon, Mafalda Travaglini, Angelina Dolcetto, Regina Costa, Sara Naccari, sono solo alcune di quante hanno lottato, sfidando il pericolo rappresentato dai fascisti, e ci danno il senso, nonostante la sofferenza patita, della soddisfazione di aver contribuito a liberare l’Italia dal nazifascismo. Per molte di queste donne la resistenza ha rappresentato la possibilità di entrare nel mondo considerato di pertinenza maschile, per altre un periodo della loro vita determinato da particolari condizioni contingenti.
Dopo la guerra non tutte tornarono alla vita di prima. Alcune entrarono in politica. Alle elezioni amministrative dell’aprile del ’46, ad Adria, nelle liste dei candidati dei vari partiti, erano presenti tre donne. Solo una di loro, del PCI, venne eletta. Laureata, insegnante di liceo classico, presentava caratteri diversi dalla maggioranza delle donne del tempo. La sua elezione era il timido segnale che il ruolo sociale delle donne iniziava a modificare, ma la strada per il raggiungimento dell’uguaglianza era ancora lunga. A loro, agli uomini e alle donne che hanno lottato, che hanno fatto la Resistenza, va la nostra riconoscenza e la nostra gratitudine. Il 25 aprile, Festa della Liberazione, lo dobbiamo a loro.
©2024 CHIOGGIA NOTIZIE - P. Iva 01463600294 - Tutti i diritti riservati.
Email: redazione@chioggianotizie.it | Credits: www.colorser.it